Tremilaseicentocinquanta giorni, Daumier, la Toga e uno schedario.
Ho conseguito l’abilitazione all’esercizio della Professione Forense il 14/10/2011. Non sapendo come e perché, ho avvertito il peso di un imbarazzo insostenibile. Per non pensarci, ho cominciato a correre senza guardarmi indietro. Ho corso ogni istante solo per paura di fermarmi e perdere l’equilibrio. E dieci anni di corsa sono trascorsi nel battito d’ali di un calabrone.
Nella corsa forse ho anche avuto una vita, ma non sono certo di ricordarmene; ho conosciuto la donna della mia vita e, per caso, due figli che andranno oltre la mia esistenza e mi hanno già reso immortale.
Quando ho cominciato a ricevere i miei primi assistiti, nel mio primo studio, nel mio primo recapito professionale, in Via Maffei 4, 98123, alle mie spalle campeggiava il mio unico complemento d’arredo: una riproduzione mal fatta e mal incorniciata di un’illustrazione di Honoré Daumier titolata Le Défenseur. Di quell’opera mi avevano rapito la teatralità e la plasticità del gesto dell’Avvocato, la luce del suo volto, l’espressione colpevolmente goffa e aquilina dell’imputato. Riecheggiavano in quell’immagine le voci del sistema accusatorio che non ho mai conosciuto direttamente, ma che ho respirato nelle discussioni, anzi nelle arringhe, dei Principi del Foro già navigati prima che io esistessi.
Quella riproduzione è l’unico vero bagaglio sopravvissuto a due traslochi e a due furti, è la mia coperta di Linus, la botte di Diogene. È stato vessillo, al mio fianco, anche presso il mio secondo domicilio professionale. È stato il mio biglietto da visita, il mio santino quando nervosamente passeggiavo per lo studio prima delle discussioni importanti.
Contravvenendo agli insegnamenti del Maestro, mi è capitato di alzare la voce in udienza, mi è capitato sempre più spesso; contravvenendo alla mia indole ho spesso disciolto i miei due grammi di timore in una pinta d’esaltazione.
Nei miei primi otto anni di esperienza professionale non ho trovato il tempo di piantare un chiodo per appendere la Toga, ma il Daumier è stato sempre lì.
Ad agosto del 2020 ho aperto la porta ad una nuova esperienza, dai muri più spessi e dai soffitti più alti. Un’esperienza che sto arredando ogni giorno secondo il mio gusto e secondo le mie nuove possibilità. Il Daumier è ancora con me, non più alle mie spalle. Il Daumier oggi ce l’ho di fronte, nascosto alle spalle degli assistiti ma sempre presente a me. Mi ricorda il rumore del portone che strisciava ad agosto e l’odore dell’androne di Via Maffei.
Non sapendo come, né perché, mi sono ritrovato presto con questi dieci anni nelle tasche e ho avvertito il peso di un imbarazzo insostenibile, nonostante la corsa. Ho avvertito il bisogno di acquistare uno schedario a cassetti. Sapevo esattamente come lo desiderassi: lo volevo vissuto, volevo che anch’esso rappresentasse la persona dell’Avvocato: polveroso dei sogni degli altri, custode di segreti, di drammi e di fortune altrui.
L’ho cercato tra le pause dei sabato mattina. E l’ho trovato. L’ho trovato, ma non l’ho acquistato. Attendevo un momento che fosse propizio, attendevo una parola fine.
Oggi ho ricontattato il fornitore, ho chiesto se il pezzo fosse ancora disponibile, ma era una domanda di circostanza. Quel pezzo è mio, anche se ancora non è con me; ma lo ricordo bene: il contratto si perfeziona con la manifestazione di volontà delle parti, e io ho detto lo voglio, lui ha scritto è ancora disponibile posso spedirlo, consegna al piano.
Con il Daumier si è aperta simbolicamente la mia esperienza professionale, con lo schedario a cassetti ho chiuso il primo tomo di un’avventura appena iniziata.
Dicono che la carriera di un Avvocato sia fatta di rogne per i primi dieci anni, di soddisfazioni per i secondi dieci e di rendita per i terzi dieci. Rogne ne vedo troppe anche oggi, e vivere di rendita non mi interessa.
Benvenuto, terzo lustro. Slàinte Mhath.