“Sebbene i fatti siano molto gravi, e vi siano ben 45 iscrizioni nel casellario giudiziale, il collegio mette in evidenza che non vi sono carichi pendenti ed inoltre il soggetto si trova in carcere da 15 anni; in tale contesto, va valutata la positiva relazione di sintesi che evidenzia un positivo percorso fatto dal reo durante questi numerosi anni in carcere” (Trib. di Sorveglianza di Catania, Ordinanza 23 ottobre 2024, n. 3140, §5 motivazione)
Con la Pronuncia in commento, il Tribunale di Sorveglianza di Catania coglie nel segno nell’individuazione dei criteri che devono essere seguiti in ordine alla valutazione delle istanze di misura alternativa, in ossequio ad un’interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo in esame.
Il caso in esame nasce da una richiesta di misura alternativa alla detenzione, in ispecie quella di cui all’art. 47 della Legge sull’ordinamento penitenziario, proposta nell’interesse di un soggetto condannato alla pena complessiva (giusto provvedimento di esecuzione di pene concorrenti emesso dalla competente Procura della Repubblica) di anni 23 mesi 2 di reclusione per numerose ipotesi di rapine aggravate, delitti commessi con le armi e dei reati di cui agli artt. 4 l. 110/1975, 10 l. 497/1974 e 2 l. 895/1967 per fatti commessi nel periodo intercorrente tra il 2002 ed il 2004.
Il soggetto in questione, con spirito di intima adesione a quell’istanza di risocializzazione implicitamente racchiusa nel dettato di cui all’art. 27 c. 3 Cost., ha sin da subito ripercorso in chiave critica il proprio operato, manifestando vivo interesse per le attività inframurarie nonché per le regole previste all’interno della struttura ove stava scontando la propria pena. Il pentimento del reo per i propri trascorsi di vita è stato ravvisato financo nella scelta di quest’ultimo di non fruire di alcun giorno di permesso premio, aldilà di quelli operanti ex art. 54 ord. penit.
Quanto sancito dal TDS di Catania altro non fa che ripercorrere – in maniera assolutamente condivisibile – tutto il percorso interpretativo dell’art. 47 ord. penit. elaborato dalla Suprema Corte di Cassazione.
Ad opinione dei Giudici della Prima Sezione Penale del Palazzaccio – pronunciatisi con la recentissima Sentenza n. 40152/2024 – ai fini del giudizio prognostico in ordine alla possibile realizzazione del reinserimento sociale (presupposto irrinunciabile dell’affidamento in prova al servizio sociale) non possono essere negativamente valutati la gravità dei titoli di reato in esecuzione e la mancata ammissione, financo durante la fase cognitiva, di colpevolezza.
Ancora, se da un lato è vero che la gravità del reato è elemento cardine in ordine a quella valutazione di prognosi da effettuare circa la probabilità di totale reinserimento a seguito del completamento dell’espiazione della pena in regime alternativo, d’altro canto è essenziale ribadire come detta gravità sia solo il punto di partenza dell’analisi cui il Giudice della Sorveglianza deve fare riferimento.
Il vero focus deve essere, infatti, l’osservazione di personalità prevista dal medesimo art. 47 ord. penit., la quale si basa sulla condotta di vita tenuta dal condannato all’interno della struttura detentiva, su un’analisi della situazione socio-familiare e sulle informazioni assunte dalle autorità di Pubblica Sicurezza, il tutto al fine di verificare il livello concreto di evitabilità della recidiva.
Puntuali i richiami effettuati alla costante applicazione giurisprudenziale del predetto principio – epicentro della finalità rieducativa voluta dai Costituenti – in tema di elementi da valutare in ordine alla concessione o al diniego della detta misura (v., ex multis, Cass. Pen., sez. I, Sent. 18.12.2023, n. 7873, Rv. 285855 – 01; Cass. Pen., sez. I, Sent. 24.05.2023, n. 44026; Cass. Pen. sez. I, Sent. 03.06.2022, n. 32196; Cass. Pen., sez. I, Sent. 20.12.2019, n. 4390 – Rv. 278174), ferma la sussistenza dei requisiti oggettivi richiesti dalla norma, in ispecie quello della pena residua da espiare in concreto.
Ulteriore requisito delineato è quello della formazione di un giudizio di idoneità della misura richiesta al raggiungimento della completa emenda (v., ex multis, Cass. Pen., sez. I, Sent. 27.06.2023, n. 43099), la quale – si badi bene – ai fini della concedibilità del beneficio massimo di cui si discetta è sufficiente che sia solamente avviata.
La Giurisprudenza di Legittimità, procedendo nella propria opera interpretativa dell’art. 47 o.p. chiariva inequivocabilmente come, ai fini della concessione del beneficio dell’affidamento in prova occorresse valutare l’accettazione – da parte del condannato – delle sentenze e delle relative sanzioni, in quanto ciò che assumere rilievo “è l’evoluzione della personalità successivamente al fatto nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale” (Cass. Pen., sez. I, Sent. 26.04.2023, n. 35610) e non già quello della confessione dei fatti. Circostanza, quest’ultima, peraltro nettamente in contrasto con il principio del nemo tenetur se detegere.
Tema che merita particolare attenzione, stante la presenza nel provvedimento di esecuzione pene concorrenti dell’interessato dall’Ordinanza in commento di reati ostativi di cui all’art. 4 bis ord. penit. (comunque espiati in ragione della c.d. “scissione cumulo”, in base alla quale si danno per espiate prima le pene dei delitti più gravi), è quello della possibilità – ricavata sapientemente dagli Ermellini – di concedere detto beneficio anche in siffatte situazione, ricorrendo i presupposti dell’assenza di carichi pendenti e del mancato sequestro della corrispondenza, in quanto elementi idonei ad integrare un’“efficacia indicativa anche in chiave logica in quanto occorre a rapportarsi al tema della prova” (diabolica) previsto dall’art. 4 bis c. 1 ss. ord. penit. (la c.d. prova della dissociazione dal vincolo mafioso); v., Cass. Pen., sez. I, Sent. 14.07.2021, n. 33743.
In definitiva, il precedente da poco cristallizzato dal Tribunale di Sorveglianza di Catania permette di fissare alcuni punti cardine nell’ambito della concessione del beneficio in questione.
In prima battuta, il faro guida di ciascun Giudicante – anche e soprattutto quello della Sorveglianza – deve essere il dettato Costituzionale e non già la “fredda ed arida” rigidità delle norme ordinarie, giacché solo un’interpretazione costituzionalmente orientata di queste ultime consente di esercitare appieno il mandato del Giudice: l’applicazione razionale della Legge ai singoli casi concreti, con le loro specificità e nel rispetto della dignità della Persona.
In secondo luogo – e da ultimo – non bisogna dimenticare che il finalismo rieducativo è uno dei cardini degli ordinamenti che aspirano a definirsi “civili”. La pena, commisurata ai singoli fatti, va espiata nell’ottica del reinserimento.
Diversamente, l’allontanamento del reo – specie se per un periodo di tempo molto prolungato – con la finalità di “ripulire” il tessuto sociale dalla sua presenza, finisce inevitabilmente per relegare i Nostri principi costituzionali al ruolo di mere filosofie astratte, tradendo così decenni di guerre e dibattiti e calpestando la dignità umana.
Dott. Tommaso Deliro